Legittimo l’ammonimento del Questore allo stalker, pure in assenza di esplicite condotte minatorie

Il Consiglio di Stato ribalta un primo verdetto improntato al formale garantismo, sostenendo di contro la legittima adozione, da parte del questore, dell’ammonimento  formale in danno dello stalker, anche senza previe garanzie partecipative per il destinatario della comminatoria, e pure in difetto di conclamate azioni minatorie.  Per il supremo Consesso amministrativo, il fulcro della norma deve incentrarsi sulla indebita interferenza nella vita privata della vittima, poiché già tale stadio (embrionale rispetto alla minaccia), ancor più se reiterato negli episodi, è destinato a condizionare il libero arbitrio della persona offesa. Cliché comportamentali che vedono il persecutore subissare la vittima predestinata di telefonate o mail giustificano l’ammonimento pubblico disciplinato dall’art. 8 L. N° 38/2009  (Consiglio di Stato, sentenza 21 Aprile 2020 N° 2545)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8710 del 2019, proposto da
Ministero dell’Interno e Questura di Milano, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici domiciliano ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

contro

L. C., rappresentato e difeso dall’avvocato I. M., con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. R. M. in Roma, via B. n. 67;

nei confronti

C. G., non costituita in giudizio;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Prima) n. 01781/2019, resa tra le parti

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di L. C.;

Visti tutti gli atti della causa;

Visto l’art. 84, commi 5 e 6, d.l. n. 18/2020;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 16 aprile 2020 il Cons. Ezio Fedullo;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:

 

FATTO e DIRITTO

Con la sentenza appellata, il T.A.R. Lombardia ha accolto il ricorso proposto dal sig. L.C. avverso il decreto di ammonimento emesso in data 21 giugno 2018 dal Questore di Milano ed a lui indirizzato, col quale, ai sensi dell’art. 8, comma 1, d.l. 2009 n. 11 (convertito con legge n. 38/2009) ed a seguito della conforme richiesta presentata da C.G., lo si invitava a tenere una condotta conforme alla legge, avvertendolo che, in caso di reiterazione dei comportamenti persecutori censurati, la pena prevista per il delitto di cui all’art. 612 bis del c.p. è aumentata e si procede d’ufficio se il fatto è commesso da soggetto già ammonito, oltre ad invitarlo a recarsi presso il CIPM “Centro Italiano per la Promozione della Mediazione”, per intraprendere il percorso trattamentale integrato, finalizzato all’acquisizione della consapevolezza del disvalore penale delle azioni commesse.

Il T.A.R. ha enucleato, in accoglimento dei corrispondenti motivi di ricorso, i seguenti vizi inficianti l’attività amministrativa censurata:

1) violazione delle garanzie partecipative, essendo “del tutto apodittica l’affermazione secondo la quale sussisterebbero particolari esigenze di celerità tali da consentire di non effettuare la comunicazione di avvio del procedimento”. In proposito, il T.A.R. ha evidenziato che “il provvedimento in contestazione, oltre a non motivare in ordine ai fatti che fonderebbero l’addotta esigenza di celerità, neppure si basa su comportamenti di C. di contenuto inequivocabilmente aggressivo o violento nei confronti della G., tali da palesare l’esigenza di provvedere senza differimenti”, aggiungendo che “del resto, nel caso in esame l’istruttoria si è protratta per quasi un mese (dal 30.5.2018 al 21.06.2018) e, pertanto, non è dato capire perché in tale arco temporale l’amministrazione, che non ha provveduto immediatamente dopo la ricezione della denuncia, non abbia sentito C., anche considerando che sono state sentite due persone, la madre e il marito della denunciante, in qualità di persone informate sui fatti”. Quanto poi alla valenza non meramente formale della violazione, il T.A.R. ha rilevato che “il provvedimento interviene in un contesto caratterizzato da una lunga relazione extraconiugale tra C. e G., sicché, considerata l’ampia discrezionalità che connota il potere esercitato dal Questore, la necessità di garantire un’istruttoria adeguata rendeva doveroso sentire C., il quale in giudizio ha prodotto numerosi messaggi e comunicazioni intercorsi tra lui e la supposta vittima, che evidenziano una situazione diversa da quella considerata dall’amministrazione, in ordine sia alla durata della relazione, sia all’effettivo contenuto delle comunicazioni tra i due, sia ai contatti avuti con il marito della G. e con il titolare dello studio presso il quale quest’ultima presta la propria attività professionale”;

2) carenza di istruttoria e di motivazione, atteso che “non risulta e non è provato che (il ricorrente, n.d.e.) si sia reso responsabile di comportamenti a matrice violenta”, tanto sia con riguardo ai contatti presi con il marito della G. (“collegati anche alla volontà espressa da quest’ultima fino al 2018 (cfr. messaggi in atti) di comunicare al marito l’esistenza della relazione extraconiugale”), sia con riguardo a quelli avuti con la madre della G. (i quali “non sono di natura violenta o minacciosa, ma manifestano la volontà di rendere pubblica una relazione protrattasi per oltre due anni”), mentre, quanto alla mail trasmessa al titolare dello studio professionale della G., “C. ha chiarito – senza alcuna contestazione da parte dell’amministrazione resistente – che, in data 25.05.2018, ha inviato la email in contestazione alla sola G., all’indirizzo di lavoro, ma, nella stessa data, quest’ultima, nel rispondere alla email ricevuta, ha inserito in copia per conoscenza l’avv. E. S., titolare dello studio presso il quale la stessa lavorava; a questo punto, C. ha risposto alla G. lasciando in copia l’avv. S.”, con la conseguenza che “la diffusione della email tra i componenti dello studio legale della G. è dipesa, in definitiva, da una scelta di quest’ultima e, si ripete, il punto non è contestato”. La ravvisata carenza motivazionale, ha infine osservato il T.A.R., emerge anche in relazione agli altri presupposti dell’ammonimento, in quanto “non è supportata sul piano istruttorio l’asserzione secondo cui il comportamento di C. avrebbe generato nella G. un grave stato d’ansia e di paura, stato che è solo asserito dalla donna, ma non è in alcun modo documentato, neppure sul piano indiziario”, né “vi sono elementi per ritenere che i comportamenti imputati a C. abbiamo costretto la G. ad alterare le proprie abitudini di vita”: in particolare, se dagli atti istruttori emerge che quest’ultima avrebbe iniziato ad usare il taxi per gli spostamenti, “anche in tale caso si tratta di affermazioni apodittiche, che non denotano, né un effettivo cambiamento nelle abitudini di vita, né che esso sia correlabile a comportamenti imputabili a C.”.

Mediante i motivi di appello, finalizzati ad ottenere la riforma della sentenza appellata, il Ministero dell’Interno contesta la correttezza argomentativa del ragionamento in essa sviluppato.

Resiste invece all’appello l’originario ricorrente.

Tanto premesso, la disamina dei motivi di appello presuppone l’inquadramento giuridico della fattispecie, al fine di ricavarne le corrette coordinate interpretative utili ad orientare la risoluzione della controversia.

A venire in rilievo, ai fini del decidere, è essenzialmente l’art. 8 d.l. n. 11 del 23 febbraio 2009, convertito in legge n. 38 del 23 aprile 2009, che l’Amministrazione intimata in primo grado ha posto a fondamento del provvedimento ivi impugnato.

Secondo l’articolo citato, invero, “fino a quando non è proposta querela per il reato di cui all’articolo 612-bis del codice penale, introdotto dall’articolo 7, la persona offesa può esporre i fatti all’autorità di pubblica sicurezza avanzando richiesta al questore di ammonimento nei confronti dell’autore della condotta. La richiesta è trasmessa senza ritardo al questore” (comma 1) e “il questore, assunte se necessario informazioni dagli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti, ove ritenga fondata l’istanza, ammonisce oralmente il soggetto nei cui confronti è stato richiesto il provvedimento, invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge e redigendo processo verbale. Copia del processo verbale è rilasciata al richiedente l’ammonimento e al soggetto ammonito. Il questore adotta i provvedimenti in materia di armi e munizioni” (comma 2).

I commi successivi si preoccupano invece di raccordare la disciplina del potere de quo, avente connotazione preventivo-amministrativa, a quella penale, prevedendo (comma 3) che “la pena per il delitto di cui all’articolo 612-bis del codice penale è aumentata se il fatto è commesso da soggetto già ammonito ai sensi del presente articolo” e che (comma 4) “si procede d’ufficio per il delitto previsto dall’articolo 612-bis del codice penale quando il fatto è commesso da soggetto ammonito ai sensi del presente articolo”.

Il richiamato art. 612 bis c.p. invece, nella formulazione vigente ratione temporis, prevede che “salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita” (la previsione è stata modificata dall’art. 9, comma 3, l. n. 69 del 19 luglio 2019 limitatamente all’aspetto sanzionatorio, essendo ora prevista la pena edittale da un anno a sei anni e sei mesi).

Come si evince dal combinato disposto delle norme citate, lo strumento dell’ammonimento è essenzialmente destinato a prevenire la recrudescenza dei fenomeni patologici talvolta caratterizzanti le relazioni umane, anche di impronta affettiva, laddove una delle parti assuma atteggiamenti di prevaricazione ed indebita ingerenza nella sfera morale dell’altra.

La finalità preventiva della misura è destinata ad operare sia sul piano dell’evoluzione delle vicende relazionali che hanno manifestato sintomi degenerativi, laddove l’autore delle condotte descritte si attenga all’ammonimento del questore, sia sul piano strettamente processuale, laddove la vittima, una volta conseguito l’effetto preventivo proprio dell’ammonimento da essa sollecitato, si astenga dal presentare la querela, costituente ordinariamente la condizione di procedibilità del reato di cui all’art. 612 bis c.p..

La correlazione tra la disciplina amministrativa e quella penale, insieme alla finalità preventiva della disposizione, nel duplice senso innanzi evidenziato, induce a ritenere che l’intervento del Questore non sia ancorato ai medesimi presupposti di quello penale, distinguendosene sia sul piano della ricognizione dei fatti atti a legittimarlo sia in relazione ai mezzi di prova utili al loro accertamento.

Dal primo punto di vista, infatti, esso è legittimato anche da condotte che, pur non possedendo gli stringenti requisiti di cui all’art. 612 bis c.p., si rivelino potenzialmente atti ad assumere, sulla base della loro concreta manifestazione fenomenica, connotati delittuosi; dal secondo punto di vista, invece, è rimessa alla discrezionalità dell’Amministrazione l’apprezzamento della fondatezza della richiesta, in relazione alla attendibilità dei fatti segnalati, e l’individuazione degli elementi di riscontro eventualmente necessari.

Tanto premesso, e procedendo all’esame della concreta fattispecie, ritiene il giudicante di posporre l’esame del motivo di appello, inteso a censurare la sentenza appellata laddove ha ritenuto la sussistenza del vizio partecipativo, a quelli rivolti a sostenere la legittimità “sostanziale” dell’atto di ammonimento, siccome ancorato alla sussistenza dei relativi presupposti legali.

Da questo punto di vista, e richiamando i principi interpretativi dianzi illustrati, deve ritenersi che il provvedimento impugnato sia fondato su un coerente quadro istruttorio e sorretto da una adeguata quanto esaustiva motivazione, di cui devono preliminarmente richiamarsi i passaggi essenziali, laddove pone in particolare in evidenza che il sig. L.C. “si è reso responsabile di atti riconducibili alla fattispecie di cui all’art. 612 bis c.p. (…) avendo con più condotte reiterate compiuto atti persecutori nei confronti di G. C.”, che “le manifestazioni vessatorie iniziate nel mese di maggio u.s. e tuttora in atto, si sono concretizzate con l’invio di numerosi messaggi, mail e telefonate, dal contenuto minaccioso contattando altresì la madre ed il marito di G. C., nonché in appostamenti presso l’abitazione della richiedente, il tutto per non essersi rassegnato alla fine della loro relazione extraconiugale terminata nel maggio c.a.” e che “tali comportamenti hanno ingenerato in G. C. uno stato di paura e preoccupazione tale da costringere a modificare le proprie abitudini di vita essendo persino costretta ad utilizzare un taxi per gli spostamenti, nonché evitando di uscire per timore di incontrare C. L.”.

Deve altresì evidenziarsi che la surriportata illustrazione delle ragioni fondanti l’adozione dell’atto di ammonimento è corroborata dalle emergenze istruttorie sulla scorta delle quali è stato emesso e compendiate nella relazione istruttoria prodotta dall’Amministrazione in esecuzione dell’ordinanza interlocutoria del giudice di primo grado.

Da esse si evince infatti che:

– la sig.ra G. C. decideva di porre termine alla relazione extraconiugale intrattenuta con il sig. L. C.;

– il sig. L. C. non accettava di buon grado la decisione della donna, ma poneva in essere plurime azioni al fine di indurla a desistere dal suo proposito;

– tali azioni consistevano, in particolare, nel manifestare alla suddetta (mediante dichiarazioni de visu e messaggi elettronici) l’intenzione di mettere a parte della loro relazione il marito della donna ed altre persone di comune conoscenza, anche appartenenti alla loro cerchia familiare (come la madre della stessa);

– tale intento veniva concretamente attuato nei confronti, quantomeno, del marito e della madre della sig.ra G. C.;

– le sue modalità di realizzazione assumevano forme particolarmente incisive, ove si consideri che il L. C. arrivava ad allegare ai suoi messaggi le immagini dei figli della sig.ra G. C., al fine di toccare le corde più sensibili della medesima;

– tale modus agendi non poteva non generare nella sig.ra G. C. uno stato di particolare agitazione e preoccupazione, ove si consideri che il sig. L.C. ne prefigurava l’attuazione, tra l’altro, mediante la pubblicazione di un libro di “1800 pagine”, corredato da foto.

Ebbene, deve in primo luogo rilevarsi che, a fronte della copiosa documentazione prodotta dalla parte lesa (e travasata nel materiale procedimentale), non assume rilievo inficiante l’attendibilità della prima la discrasia tra l’epoca di cessazione della relazione, coincidente secondo la versione della medesima col mese di ottobre 2017 e secondo la tesi del ricorrente con il mese di maggio 2018: ad assumere rilievo decisivo, infatti, è l’attività posta in essere dal secondo, in particolare dal mese di maggio 2018, al fine di influire sulla scelta della sig.ra C. G. di interrompere la relazione adulterina.

Nemmeno idonea ad incidere sull’accertamento dei presupposti per l’adozione dell’atto di ammonimento è l’assenza di connotati minacciosi o violenti nelle condotte dell’originario ricorrente: è sufficiente al riguardo osservare che l’art. 612 bis c.p., che fornisce la cornice entro cui collocare la valutazione, anche solo in chiave prognostica, dei comportamenti dell’ammonendo, fa riferimento alla reiterazione di condotte di “minaccia o molestia”, ponendo il fulcro della fattispecie sulle conseguenze derivatene sulla condizione psichica ed esistenziale della vittima.

Ebbene, non vi è dubbio che, costituendo la molestia un minus, secondo uno spettro di progressione aggressiva, rispetto alla minaccia, sono suscettibili di integrare la prima anche condotte che, senza rappresentare al soggetto passivo un male ingiusto, integrino comunque una forma di indesiderata interferenza nella sfera privata del medesimo e delle sue più strette relazioni, sottraendola al libero controllo decisionale dell’interessata al fine di condizionarla secondo i disegni e le finalità proprie dell’autore della molestia.

Nella fattispecie in esame, deve in primo luogo affermarsi che la reiterata manifestazione della volontà dell’ammonito di estendere la sfera di conoscenza della relazione extraconiugale rispetto ai suoi diretti protagonisti integra, di per sé, una condotta minatoria, sia in virtù del discredito che, pur in un contesto laicizzato e relativistico come quello contemporaneo, la violazione del dovere di fedeltà coniugale porta inevitabilmente con sé, sia, e forse soprattutto, in ragione della maggiore difficoltà di superamento della frattura coniugale laddove essa sia portata a conoscenza del coniuge da soggetti estranei e secondo modalità non appropriate.

In ogni caso, come si diceva, la norma de qua attribuisce rilevanza anche ai “semplici” atti di molestia, come non possono non qualificarsi le ripetute incursioni attuate dal sig. L. C. nella vita privata della sig.ra C. G., pur dopo la definitiva ed indiscussa interruzione della relazione da essi intrattenuta.

Per quanto concerne, invece, le conseguenze delle azioni del sig. L. C. sullo stato psichico ovvero sulle abitudini di vita della sig.ra C. G., costituenti l’evento della fattispecie criminosa de qua, deve ritenersi che ricorrano, nella specie, entrambi gli alternativi elementi costitutivi previsti dal legislatore ai fini della sua integrazione.

Dal primo punto di vista, invero, militano nel senso della sua sussistenza le dichiarazioni rese dalla sig.ra C. G., avvalorate dalla oggettiva consistenza lesiva della condotta ascrivibile al sig. L. C.: né potrebbe rendersi necessario, a tal fine, un riscontro clinico dello stesso, non necessariamente lo “stato di ansia o di paura” dovendo trasmutare in un vero e proprio processo patologico clinicamente diagnosticabile.

Dal secondo punto di vista, invece, non hanno trovato specifica confutazione le risultanze istruttorie inerenti ai condizionamenti che la condotta del sig. L. C. ha determinato nelle abitudini esistenziali della sig.ra C. G., a cominciare dalla necessità, al fine di sfuggire ai suoi incontri, di modificare i percorsi seguiti abitualmente.

In tale contesto ricostruttivo, perde di rilevanza invalidante la deduzione attorea intesa a lamentare l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento monitorio.

Deve premettersi che la giustificazione dell’omissione è stata fornita dall’Amministrazione nei termini seguenti: “al fine di scongiurare il possibile scatenarsi di dinamiche reattive ulteriori, anche più pregiudizievoli, rispetto alle condotte descritte”.

Ebbene, è evidente che l’omissione in discorso si giustifica pienamente con la natura tipologica del procedimento, riconducibile come si è detto agli strumenti preventivi, intesi ad evitare che al pericolo di danno faccia seguito la realizzazione dell’evento lesivo (o comunque il suo aggravamento, ove già in atto).

Né tale conclusione si scontra con l’esigenza di un accertamento in concreto, e non “per categorie astratte”, della sussistenza delle ragioni di urgenza atte a legittimare l’omissione partecipativa, dal momento che la suddetta finalità preventiva – con la connessa esigenza di un immediato intervento dissuasivo – trova riscontro nelle stesse modalità di svolgimento degli accadimenti che hanno determinato l’adozione del provvedimento di ammonimento, caratterizzati dalla pervicacia dell’atteggiamento invasivo del sig. L. C. nei confronti della sig.ra C. G., e nella necessità di non protrarre lo stato di ansia da esso generato nella suddetta.

L’appello in conclusione, per le ragioni illustrate, deve essere accolto, e conseguentemente respinta la domanda di annullamento proposta in primo grado.

L’originario ricorrente deve essere infine condannato alla refusione delle spese dei due gradi di giudizio a favore dell’Amministrazione intimata, nella complessiva misura di € 3.000,00, oltre oneri di legge.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, respinge il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.

Condanna l’originario ricorrente alla refusione delle spese relative ai due gradi di giudizio a favore dell’Amministrazione intimata, nella complessiva misura di € 3.000,00, oltre oneri di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso nella camera di consiglio, svolta in modalità telematica, del giorno 16 aprile 2020 con l’intervento dei magistrati:

Franco Frattini, Presidente

Giulio Veltri, Consigliere

Giovanni Pescatore, Consigliere

Giulia Ferrari, Consigliere

Ezio Fedullo, Consigliere, Estensore


STUDIO LEGALE NOTO COSENZA NAPOLI

 

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