La Corte di Cassazione enuclea con ulteriore dettaglio la nozione di pratica commerciale scorretta, non passibile di essere circoscritta a quanto in proposito previsto dall’art. 20 Codice del Consumo, non passibile di costituire un perimetro tipizzato e dunque tassativo. La vicenda che porta la Corte di Legittimità ad amplificare la nozione e la portata, pure indiretta, di pratica commerciale scorretta ed ingannevole, sorge da un contenzioso tra il contraente consumatore ed il professionista assicuratore, cui viene ascritto l’omesso obbligo di informare i beneficiari della polizza assicurativa circa la decorrenza del termine biennale per la liquidazione dell’indennizzo, a fronte di una nota informativa della polizza che annoverava di contro il più ampio decorso decennale utile per la escussione del contratto.
Dinanzi al Tribunale di Primo Grado, gli eredi del contraente chiedono ed ottengono il risarcimento del danno, correlato proprio alla mancata informativa, da parte dell’assicuratore, concernente il più risicato termine di liquidazione dell’indennizzo.
La sentenza di primo grado viene riformata dalla Corte d’Appello, la quale sovverte il convincimento del tribunale, così da escludere la sussistenza di un fattivo obbligo di notiziare i contraenti circa l’approssimarsi del termine di prescrizione del diritto; comportamento ritenuto non inerente l’interesse proprio del debitore, ed al contempo alieno al programma contrattuale ed alla relativa causa. In sintesi, la infruttuosa decorrenza del termine di prescrizione costituisce l’epilogo di una condotta poco diligente da parte del beneficiario, destinato a sobbarcarsi le conseguenze di una simile richiesta.
Avverso la sentenza della Corte territoriale interpongono ricorso per cassazione gli eredi del contraente, affidando l’impugnativa di legittimità a plurimi motivi, tutti finalizzati a cristallizzare un nesso osmotico tra gli obblighi di buona fede contrattuale e le pratiche commerciali scorrette, da ritenere tali tutti i comportamenti volti ad influenzare l’approccio del consumatore nelle dinamiche negoziali.
Il Giudice di Legittimità ritiene fondato il ricorso, all’esito di uno scrutinio congiunto del motivi di ricorso. La Corte argomenta il proprio convincimento analizzando dapprima la concreta nozione di buona fede contrattuale ex art. 1175 cc e 1375 cc, così da ritenere che la medesima si sostanzi al contempo in: a) regola di comportamento, tale da prescindere dalla sussistenza di specifici obblighi contrattuali; b) in un canone di interpretazione del contratto ex art. 1366 cc; c) in un criterio di determinazione della prestazione contrattuale, sotto tale ambito destinato a valicare quanto sancito dall’art. 1374 cc e dall’art. 1339 cc, nella misura in cui impone compiere quanto necessario ed opportuno al fine di preservare gli interessi della controparte.
Alla buona fede si cumula un obbligo di diligenza ex art. 1176 cc, comma 2°, da parametrare al caso concreto, ma sempre nell’ottica di preservare l’equilibrio contrattuale, la concreta attuazione del rapporto sinallagmatico, dal punto di vista del consumatore. Da ultimo entra in gioco l’interpretazione negoziale ex art. 1366 cc, che permette interpretare la nozione di buona fede, di modo da escludere le interpretazioni criptiche del contratto, da correlare di contro alla sua ratio, alla sua ragione prativa, in coerenza con gli interessi che le parti hanno inteso perseguire e tutelare.
Chiarita la cornice esegetica, emerge per la Corte la sussistenza di una pratica commerciale scorretta, da ritenere tale allorquando il professionista ha allegato al contratto una clausola nulla. Tale comportamento, seppure non avente una diretta influenza, assume rilievo, alla stregua dei principi ermeneutici suddetti, considerata la sua incidenza mediata sull’approccio contrattuale del consumatore.
La pratica commerciale di inserire nel corpo negoziale una clausola invalida, priva di effetti per la parte disponente, può ergersi a una pratica ingannevole, riconducibile nell’alveo dell’art. 21 Decreto legislativo 206 del 2005, e come tale passibile di dar luogo a un inadempimento contrattuale, generatore di un obbligo di risarcire il danno, se si considera come, detta clausola, ha un contenuto idoneo ad ingannare il consumatore verso una data scelta in luogo di altra.
L’ attuazione di una pratica commerciale scorretta in sede contrattuale, non ovviata neppure in sede di esecuzione del contratto dalla parte contrattuale che ne trae giovamento, costituisce ulteriore fattispecie da vagliarsi avuto riguardo ai suindicati obblighi di diligenza e buona fede o correttezza, e pure sul piano risarcitorio (Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile, Ordinanza 26 Maggio 2025 N° 14029).
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