Obbligo di sicurezza sui luoghi di lavoro violato, se circoscritto ad una asettica osservanza delle prescrizioni antinfortunistiche

La Corte di Legittimità continua a rimarcare la ampia portata del dettato codicistico, che non può esaurirsi nella mera osservanza della legislazione sugli infortuni. Ove si impieghi manodopera inesperta, è necessario procedere ad adeguata istruzione per ciò che concerne ogni possibile pericolo, specie se manchi un coordinatore della prestazione. Cassazione Civile, Sez. 3, 24 gennaio 2012, n. 944

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati

Dott. Francesco Trifone Presidente
Dott. Camillo Filadoro Rel. Consigliere
Dott. Mario Finocchiaro Consigliere
Dott. Fulvio Uccella Consigliere
Dott. Franco De Stefano Consigliere

ha pronunciato la seguente
SENTENZA

sul ricorso 14305/2009 proposto da:
Società Cooperativa Artigiani Agratesi S.C.A.R.L. 08586950159 in persona del presidente del consiglio d’amministrazione Sig. Mauro Beretta, elettivamente domiciliato in Roma, via Asiago 8, presso lo studio dell’avv. Aureli Michele, rapprensentata e difesa dall’avvocato Paganelli Luigi giusta delega in atti;

ricorrente

contro  DUE VI SAS di L. V. e C., Q.H. … , L.V., Q.K. …, C.G. …, Q.M. …, C. srl …, F.F. …, Q.F. …;

intimati

nonchè da C. srl … in persona dell’amministratore unico e legale rappresentante Sig.ra G.C. in proprio ed elettivamente domiciliati in Roma, via Leonida Bissolati 76, presso lo studio dell’avv. Tommaso Spinelli Giordano, che li rappresenta e difende unitamente all’avv. Muto Silvano giusta delega in atti;

ricorrente incidentale

contro

Società Cooperativa Artigiani Agratesi S.C.A.R.L. 08586950159 in persona del presidente del consiglio d’amministrazione Sig. Mauro Beretta, elettivamente domiciliato in Roma, via Asiago 8, presso lo studio dell’avv. Aureli Michele, rapprensentata e difesa dall’avvocato Paganelli Luigi giusta delega in atti;

controricorrente all’incidentale

nonchè contro

contro  DUE VI SAS di L. V. e C., Q.H. … , L.V., Q.K. …, C.G. …, Q.M. …, C. srl …, F.F. …, Q.F. …;

intimati

avverso la sentenza n. 1998/2008 della Corte di Appello di Milano, depositata il 30/06/2008, R.G.N. 2659/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/12/2011 dal Consigliere dott. Camillo Filadoro;
udito l’avv. Luigi Paganelli;
Udito l’avv. Nicola Rivellese per delega;
udito il PM in persona del sostituo procuratore generale dott. Ignazio Patrone che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi;
Fatto

Con sentenza 14 maggio-30 giugno 2008 la Corte di appello ai Milano confermava la decisione del Tribunale di Monza del 16-30 gennaio 2007, la quale aveva condannato la Cooperativa A.A s.r.l., la C. s.r.l., i G.C. in proprio, la D.V. s.r.l. nonché L.V. in proprio al pagamento in favore dei genitori e fratelli di Q.C. attori nel giudizio di primo grado, delle somme indicate in dispositivo, nella loro qualità di prossimi congiunti del defunto a titolo di risarcimento dei danni conseguenti all’infortunio sul lavoro del 5 luglio 2000.

Quel giorno, il Q., ventenne manovale marocchino, dipendente della ditta D. V. s.a.s. da due giorni, era stato travolto da alcuni cordoli di cemento, in un cantiere in Agrate Brianza, in un lavoro appaltato alla s.r.l. dalla Cooperativa A.A. s.r.l., proprietaria dell’ immobile.

Le modalità del sinistro erano cosi ricostruite dalla Corte territoriale: il giovane era intento ad assemblare con fasce di canapa alcuni gruppi di cordoli di cemento, già depositati al suolo, quando la ruspa azionata dal dipendente della C. ., G.S. – procedendo al sollevamento dal lato destro dell’automezzo di un bancale di cordoli composto da 18 pezzi – con le forche agganciava inavvertitamente altro bancale, provocando lo scivolamento da questo, dal lato sinistro del camion, di quattordici cordoli che cadendo, schiacciavano il Q. , deceduto il giorno successivo.

La domanda di risarcimento danni proposta da genitori e fratelli del lavoratore era accolta dal Tribunale di Monza, che condannava in solido al risarcimento dei danni la Cooperativa A.A. in veste di committente della Q , questa ultima in quanto sub-committente della datrice di lavoro del lavoratore deceduto, la stessa D.V., dalla quale dipendeva il Q , infine, G.C. e LV. nella loro qualità dì legali rappresentanti delle due società ed in proprio.

Gli originari attori dichiaravano di rinunciare ad ogni domanda nei confronti di A.V. persona preposta all’esecuzione dei lavori, deceduto nelle more del giudizio (peraltro anche questi condannato dal Tribunale dì Monza).

Avverso tale decisione proponeva appello la Cooperativa A.A. s.r.l. deducendo la mancanza di prova del vincolo familiare degli attori con il lavoratore deceduto nell’incidente, sostenendo la propria totale estraneità ai fatti di causa e chiedendo in ogni caso la riduzione del risarcimento liquidato alle parti lese.

Costituendosi in giudizio la D.V.S. di L.V. e L.V. in proprio, censuravano la dichiarazione di inammissibilità delle domande dì rivalsa spiegate in via riconvenzionale, contestavano la loro responsabilità e anche esse eccepivano la carenza di prove in ordine alla esistenza del vincolo di parentela tra gli attori e la vittima, deducendo infine la eccessività della liquidazione del danno già operata dal primo giudice.

La C. s.r.l. e G. C., costituendosi in giudizio, svolgevano analoghe censure. Pregiudizialmente rilevavano la nullità della sentenza per mancato rispetto dei termini di cui all’art. 190 c.p.c. per avere il Tribunale concesso alle parti un termine per il deposito degli atti defensionali inferiore a quello di legge.

QQ, inoltre, ribadiva la propria carenza di legittimazione passiva, in considerazione della sua posizione di organo di una società di capitali, soggetto giuridico distinto dalle persone che la compongono.

Con la sentenza sopra richiamata la Corte di appello di Milano rigettava integralmente l’appello principale della Cooperativa .A.A. e gli appelli incidentali della D.V. s.a.s. di L.V. e di L.V. in proprio, della C. s.r.l. e di i G.C. in proprio.

Avverso questa decisione propone ricorso per cassazione la società Cooperativa A.A. s.r.l. con nove motivi.

Resistono con controricorso, la srl C. e LC. in proprio, proponendo ricorso incidentale cui resiste con controricorso la Cooperativa A.A.

Diritto

Deve innanzi tutto disporsi la riunione dei ricorsi proposti contro la medesima decisione.

Con il primo , secondo, terzo, quarto e quinto motivo la ricorrente principale formula diverse censure di violazione o falsa applicazione di norme di legge

1) per avere i giudici di appello considerato la procura alle liti alla stregua di una valida prova documentale della esistenza di un grado di parentela nei confronti del lavoratore deceduto (con violazione degli articoli 2699, 2799 cc. nonché degli articoli 2697 e 2730 cc.)

2) per avere ritenuto valida certificazione della condizione di madre del defunto la autorizzazione alla sepoltura e i documenti amministrativi prodotti (con violazione dell’art. 2700 cc.).

3) per avere la Corte territoriale ritenuto tardiva la eccezione di carenza di prova circa la posizione dei famigliari del defunto in capo agli attori, in violazione degli articoli 2697 cc. e 167 c.p.c.

4) per essere stata estesa alla Cooperativa A. A. la qualità di datrice di lavoro di Q.C., o comunque di responsabile del sinistro in violazione delle norme vigenti in materia di prevenzione infortuni e responsabilità del committente

5) per avere i giudici di appello utilizzato le prove testimoniali raccolte nel giudizio penale, al quale la ricorrente principale era rimasta estranea, in violazione degli articoli 244., 245 e 253 ce. nonché dell’art. 206 c.p.c. in ordine al diritto della parte di assistere personalmente alle deposizioni. Osserva il Collegio: i primi due motivi del ricorso principale sono destituiti dì ogni fondamento.

La Corte territoriale ha ritenuto, sulla base di numerosi elementi, provata la qualità di genitori e di figli degli originari attori, confermando la decisione del giudice di primo grado.

In particolare, i giudici di appello hanno richiamato gli atti del procedimento penale segnalando che l’imputata G,C. era stata condannata per il reato di omicidio colposo alla pena di un anno e che la stessa era stata condannata a risarcire i danni in favore delle costituite parti civili Q.K. e Q.M..

Gli stessi giudici hanno precisato che la circostanza della estraneità della Cooperativa ai processi penali escludeva che fossero utilizzabili nei suoi confronti le sentenze ivi pronunciate, ma non impediva al giudice civile di trarre il suo libero convincimento in ordine alla responsabilità civile dello stesso anche tramite la utilizzazione del materiale raccolto in quella sede (oltre che dalla istruttoria compiuta in sede civile).

La decisione del Tribunale penale era stata confermata dalla Corte di appello di Milano, con sentenza 6 novembre 2006, la quale aveva rimesso le parti dinanzi al giudice civile per il ristoro dei danni.

Inoltre, gli stessi giudici avevano precisato che le procure alle liti contenevano la espressa indicazione della rispettiva qualità di genitori e di fratelli degli stessi attori.

Le circostanze di fatto poste a base della esistenza di un rapporto di parentela, ha osservato ancora la Corte territoriale, erano state affermate dagli stessi attori e le stesse dovevano considerarsi ammesse, in quanto non specificamente contestate dalle parti convenute. A fronte di tale, concordanti, elementi si infrangono tutte le censure di violazione di legge formulate nei primi due motivi.

Collegato con i primi due motivi è il terzo motivo con il quale la ricorrente principale censura la decisione impugnata nella parte in cui è stata ritenuta tardiva la eccezione di carenza della prova circa la posizione di familiari o prossimi congiunti del defunto in capo a F.F., Q.F., QH., Q.M. per essere stata sollevata tale eccezione solo con la comparsa conclusionale in primo grado e dunque oltre il termine di cui al disposto degli articoli 166 e 167 c.p.c. e di quello dell’art. 183, VI comma, c.p.c. ad avviso della ricorrente principale la qualità dì congiunti dell’infortunato ben poteva essere sollevata anche nel giudizio di appello.

Rileva la ricorrente principale che nel caso di specie non era in discussione la qualità di eredi degli attori, ma quella di prossimi congiunti del defunto: elemento, questo, costitutivo del diritto al risarcimento e non della legittimazione ad agire.

Con la conseguenza che tale qualità avrebbe dovuto essere dimostrata dagli attori, secondo i principi generali. La società Cooperativa aveva tempestivamente contestato che gli attori rivestissero una posizione tale da consentire loro in diritto “iure proprio” al risarcimento. Con ordinanza 27 ottobre 2005 la Corte aveva riconosciuto che tutte le domande erano state proposte dagli attori “iure proprio” e che la causa doveva essere assegnata ad un giudice ordinario non rientrando tra le cause rimesse alla competenza del giudice del lavoro secondo la giurisprudenza di questa Corte, per cui ” La domanda di risarcimento dei danni proposta “iure proprio”, cioè, quali soggetti estranei al rapporto di lavoro, dai congiunti del lavoratore deceduto, anche se la morte del dipendente sia derivata da inadempimento contrattuale del datore di lavoro verso il dipendente ex art. 2087 cod. civ., trova la sua fonte esclusiva nella responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 cod. civ., rappresentando il rapporto di lavoro la mera occasione della responsabilità oggetto dell’accertamento. Ne deriva che la competenza a decidere su detta domanda appartiene non al giudice del lavoro, ma al giudice ordinario” (Cass. 4 settembre 1999 n. 9359).

La censura formulata con questo terzo motivo è assorbita dal preciso accertamento, contenuto nella decisione impugnata, della sussistenza dei requisiti indicati nell’atto introduttivo (di stretti familiari della vittima dell’ infortunio).

I giudici di appello hanno fatto puntuale riferimento, oltre che all’estratto dell’atto di morte ed alle risultanze del giudizio penale – per quanto riguarda il padre e la madre della vittima – anche alle certificazione prodotta nel giudizio di primo grado, dal quale risulta la qualità di eredi del fratello e delle due sorelle.

Con autonoma “ratio decidendi” (anche essa impugnata dalla ricorrente principale) i giudici dì appello hanno sottolineato che nessuna contestazione tempestiva era stata formulata al riguardo dagli originari convenuti.

La decisione impugnata, nella parte in cui ha considerato tardiva la eccezione di carenza di prova in ordine alla sussistenza del vincolo parentale (in quanto sollevata dalla sola Cooperativa in sede di comparsa conclusionale in primo grado) appare del tutto corretta.

Infatti, nel caso di specie non è stata contestata la “legitimatio ad causarti”, ma la titolarità, in concreto, della situazione giuridica dedotta.

Attengono ai merito, e non alla vera e propria “legitimatio ad causarti” le questioni sull’appartenenza in concreto all’attore del diritto controverso e quelle relative alla titolarità passiva del rapporto sostanziale dedotto in causa. La legittimazione ad agire ed a contraddire si risolve nell’accertare se, secondo la prospettazione dell’attore, quest’ultimo ed il convenuto assumano la veste di rispettivamente- soggetto che ha il potere di chiedere la pronunzia giurisdizionale e di soggetto tenuto a subirla; mentre attiene invece al merito della lite la questione relativa alla reale titolarità attiva o passiva del rapporto sostanziale dedotto in giudizio, che si risolve nell’accertamento dì una situazione di fatto favorevole all’accoglimento o al rigetto della pretesa azionata.

Ne consegue che trattasi di questione di “legitimatio ad causam” nel (solo) caso in cui si faccia valere in via giurisdizionale un diritto rappresentato come altrui od oggetto della propria sfera di azione e di tutela, al di fuori del relativo modello legale tipico; laddove attiene viceversa al merito della causa la controversia concernente la reale titolarità del diritto sostanziale del diritto fatto valere in giudizio, in ordine al quale trovano applicazione le regole in tema di preclusioni dettate per ciascun grado di giudizio.

A differenza del difetto di legittimazione passiva -rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, salvo il limite del giudicato eventualmente formatosi l’effettiva titolarità attiva del rapporto giuridico attiene al merito della controversia e il suo difetto, non rilevabile d’ufficio dal giudice, è rimesso al potere dispositivo delle parti, le quali sono tenute a dedurlo nei tempi e modi previsti per le eccezioni di parte (Cass. 3 giugno 2009 n. 12832; cfr. Cass. 23 ottobre 2009 n. 21703, Cass. S.U. n. 26019 del 2008).

La decisione impugnata, (pertanto) che ha ritenuto la tardività della eccezione di carenza di titolarità attiva degli originari attori sfugge, pertanto, a qualsiasi censura in sede di legittimità.

Il quarto motivo del ricorso principale censura, sotto il profilo della violazione dell’art. 2087 cc, e delle norme in materia di sicurezza ed antinfortunistica nei luoghi di lavoro, la sentenza impugnata nella parte in cui la stessa ha ritenuto – pure in assenza di una qualsiasi ingerenza o negligenza della committente – di estendere alla Cooperativa A As.r.l. a qualità di datore di lavoro di QQ comunque di corresponsabile della appaltatrice per “culpa in eligendo”, anche in relazione all’uso del sistema del massimo ribasso quale criterio per la assegnazione dell’appalto generale delle opere di urbanizzazione primaria nel cantiere in questione.

Il quinto motivo riguarda la violazione degli articoli 244, 245, 253 c.p.c. in ordine alle modalità di deduzione ed assunzione delle prove testimoniali, nonché dell’art. 206 c.p.c. in ordine al diritto della parte di assistere personalmente alle deposizioni. Erroneamente i giudici di appello avevano ritenuto di poter utilizzare prove testimoniali raccolte nel giudizio penale, del quale la Cooperativa pure non era stata parte, al fine di riconoscere una qualche responsabilità della Cooperativa nella causazione dell’ infortunio.

I due motivi, da esaminare congiuntamente in quanto connessi tra di loro, non sono fondati.

La Corte territoriale ha spiegato ampiamente le ragioni per le quali, valutando le risultanze probatorie acquisite nel processo penale e quelle del giudizio civile, è giunta alla affermazione di responsabilità solidale di tutti i convenuti, nelle rispettive loro qualità, rilevando che tutti erano tenuti ad osservare e far rispettare la normativa antinfortunistica nel testo all’epoca vigente (dunque non solo le disposizioni del DPR 1955 e 1956 ma anche quelle più recenti del decreto legislativo 626 del 1994494 del 1996 e 528 del 1999 – disposizione questa ultima entrata in vigore in data anteriore a quella dell’infortunio sul lavoro). Con motivazione che sfugge a qualsiasi censura, i giudici di appello hanno osservato che i decreti legislativi 494 del 1996 (nel testo modificato) e 626 del 1994 hanno ampliato il novero dei soggetti che, per legge, debbono ritenersi obbligati alla predisposizione dei presidi e dei controlli antinfortunistici sui luoghi di lavoro (con espresso riferimento a chi si è reso committente delle opere). In particolare l’art. 20 del d.l.vo 494 del 14 agosto 1996 prevede sanzioni penali a carico del committente che non abbia rispettato gli obblighi posti a suo carico. In questo quadro, osserva ancora la Corte territoriale, costituiva circostanza del tutto irrilevante che il giudice penale non avesse sottoposto il responsabile della Cooperativa a procedimento penale.

I giudici di appello hanno sottolineato che la scelta della società appaltatrice da parte della committente era avvenuta senza adeguata valutazione della capacità ed esperienza della stessa, risultata priva di mezzi e personale idonei a svolgere i lavori appaltati (ed in particolare lo scarico dei cordoli di cemento, durante il quale si era verificato l’infortunio mortale). “L’estrema superficialità con cui si decise di sveltire l’andamento dei lavori, senza la benché minima predisposizione di opere di salvaguardia, ovvero l’intervento di un addetto in grado di coordinare la esecuzione del lavori, a tutela di coloro che ivi prestavano la loro attività lavorativa – ha sottolineato con accertamento insindacabile in questa sede la Corte milanese – è sintomatica della negligenza e della imprudenza con cui le opere appaltate dalla Cooperativa da questa parzialmente suoappaltate alla D.V. venivano eseguite”.

La D.V. , dal canto suo, aveva assunto l’incarico di provvedere allo scarico dei materiali, pure essendo sprovvista di mezzi adeguati: il che aggravava la responsabilità della società e del suo legale rappresentante. Nella sentenza impugnata vi è un altro capo della decisione che riconosce come nessuno dei vari soggetti responsabili della sicurezza (committente, subcommittente e datrice di lavoro dell’infortunato) avesse provveduto a fornire una adeguata formazione ed informazione al giovane defunto in relazione allo svolgimento in sicurezza delle sue mansioni. Questa parte della motivazione non è stata sottoposta a specifica censura da parte della ricorrente principale che si è limitata a ribadire la propria estraneità rispetto alla organizzazione del lavoro appaltato.

In tal modo, tuttavia, la Cooperativa non tiene conto di quanto stabilito dall’art. 3, comma 3, decreto legislativo n. 494 del 14 agosto 1996, modificato dal decreto legislativo 528 del 1999, il quale stabiliva che “nei cantieri in cui è prevista la presenza di più imprese, anche non contemporanea” deve essere designato dal committente o dal responsabile dei lavori “un coordinatore per la esecuzione dei lavori che deve essere in possesso dei requisiti di cui all’art. 10“. Questa figura, secondo quanto accertato dai giudici di appello, era del tutto assente nel caso di specie.

Il dovere di sicurezza a carico del datore di lavoro a norma dell’art. 2087 cod. civ., assolto con l’adozione di tutte le cautele necessarie ad evitare il verificarsi dell’evento dannoso ed anche con l’adozione di misure relative all’organizzazione del lavoro, tali da evitare che lavoratori inesperti siano coinvolti in lavorazioni pericolose, si atteggia in maniera particolarmente intensa nei confronti dei lavoratori di giovane età e professionalmente inesperti, esaltandosi in presenza di apprendisti nei cui confronti la legge pone precisi obblighi di formazione e addestramento, tra i quali primeggia l’educazione alla sicurezza del lavoro (art.11, legge n.25 dei 1955).

La giurisprudenza di questa Corte riconosce che persino l’accertato rispetto delle norme antinfortunistiche di cui agli artt. 47 e 48 del D.P.R. n.626 del 1994 e dell’allegato VI a tale decreto ( circostanza, questa, esclusa nel caso di specie, come sopra ricordato) non esonera affatto il datore di lavoro, dall’onere di provare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi dell’evento, con particolare riguardo all’assetto organizzativo del lavoro, specie quanto ai compiti dell’apprendista, alle istruzioni impartitegli, all’informazione e formazione sui rischi nelle lavorazioni (Cass. 18 maggio 2007 n. 11622, 12 gennaio 2002 n. 326, 2 ottobre 1998 n. 9805).

Sesto e settimo motivo del ricorso riguardano entrambi vizi della motivazione e violazione di norme di legge. Il quesito posto con il sesto motivo è il seguente: “se possa, o meno considerarsi documento con efficacia certificativa o prova documentale, in relazione agli articoli 2697, 2799 e 2730 cc, una procura “ad litem” con sottoscrizione dei mandanti autenticate da autorità di stato civile estere e tradotta ufficialmente dall’autorità consolare italiana, anche per quanto attiene alle dichiarazione dei mandanti/parti attrici nel processo ove viene utilizzata – ivi trascritte, ma non munite di dichiarazione di scienza diretta del pubblico ufficiale autenticatorie né dalla autorità consolare italiana in sede di traduzione asseverata ed anzi munita di specifiche attestazioni della autorità autenticatici circa la non estendibilità delle loro certificazioni di autenticità anche ai contenuti della procura ed a parti di essa ulteriori alle mere sottoscrizioni dei dichiaranti”.

Analoghe sono le censure formulate con il settimo motivo che si conclude con il quesito: “se, in ordine alla sussistenza di determinate qualità fisiche o giuridiche (in particolare, la sussistenza di legami di parentela o famigliarità verso terzi) in capo ad una persona (fisica e giuridica) che sia parte di un giudizio, possa o meno costituire valida prova documentale verso le altre parti processuali la dichiarazione che quella persona o altre parti dello stesso giudizio abbiano espresso in una procura alle liti, tanto nel caso in cui detta procura sia stata raccolta in una scrittura autenticata da un pubblico ufficiale estraneo al processo, quanto nel caso in cui sia stata autenticata dal difensore in causa o in altro giudizio connesso nel quale alcuna delle altre parti non sia stata coinvolta”.

I due motivi sono infondati per le ragioni esposte in relazione ai primi due motivi del ricorso principale. Per quanto riguarda, infine, la questione della irregolarità della procura alle liti degli attori, la stessa è inammissibile alla luce della giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale:”nel processo civile, l’invalidità della costituzione di una delle parti non integra un nullità rilevabile d’ufficio, senza alcun limite, in ogni stato e grado del giudizio. ” (Cass. 12 gennaio 20C6 n. 403) E’ da ritenersi, pertanto, preclusa, in sede di giudizio di cassazione, la questione della mancanza di prova della contiguità familiare con il defunto e della conseguente irregolarità della procura rilasciata dagli attori delle parti in primo grado non sollevata tempestivamente nei motivi di appello. La ricorrente principale non indica, del resto, in quale atto la eccezione relativa alla regolarità della procura sarebbe stata proposta in sede di appello. Donde la inammissibilità delle relative censure.

L’ottavo motivo del ricorso principale denuncia vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata per avere affermato la esistenza di una responsabilità per il sinistro in oggetto senza indicare le norme di diritto dalle quali dovrebbe dedursi la norma di condotta che – violata o disattesa – implicherebbe la colpa o responsabilità della ricorrente.

Il motivo di ricorso si conclude con la formulazione del quesito: “se possa, o meno, considerarsi assolto l’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, di cui all’art. 111 Cost., laddove il giudice del merito abbia riconosciuto in capo ad una parte una responsabilità civile o comunque giuridica per colpa solo descrivendo un comportamento imperito, imprudente o negligente senza tuttavia far menzione della norma (o almeno della regola comportamentale) che avrebbe imposto al condannato di non tenere tale condotta o di tenerne un’altra, ed in particolare, nel caso della attribuzione ad una parte di una responsabilità colposa per un infortunio sul lavoro, senza indicare le norme di diritto dalle quali dovrebbe dedursi la regola di condotta che, violata o disattesa, implicherebbe la colpa o responsabilità in quanto datore di lavoro o soggetto comunque ritenuto responsabile “ex lege”.

Le censure formulate con questo motivo seno del tutto infondate.

Con ampia motivazione, i giudici di appello hanno spiegato le ragioni per le quali hanno ritenuto di confermare integralmente la decisione di primo grado, individuando per ciascuno dei convenuti l’ambito delle rispettive responsabilità.

Per quanto riguarda, in particolare, la posizione della società committente i giudici di appello hanno sottolineato che la procedura con la quale era stata prescelta la società C. era, per sé stessa, fonte di responsabilità. La scelta era stata operata sulla base del prezzo più basso e si era dimostrata incauta, poiché la C. si era subito dimostrata non all’altezza della responsabilità assunte, rivolgendosi ad altra società, la ID.V. che – a sua volta -era sprovvista di mezzi idonei alla bisogna (scarico di cordoli di cemento da un camion).

Il motivo di ricorso, pertanto, si risolve nella richiesta di una diversa interpretazione delle risultanze processuali, inammissibile in questa sede.

Il nono motivo del ricorso principale denuncia vizi della motivazione per avere i giudici di appello confermato la liquidazione dei danni già operata dal primo giudice in favore degli originari attori, senza evidenziare alcun parametro di riferimento o elemento di prova dal quale potesse desumersi la sofferenza effettivamente patita da ciascuno di essi.

Anche queste censure sono infondate. Con valutazione equitativa, condivisa dalla Corte territoriale, il primo giudice ha provveduto a liquidare i danni sofferti da ciascuno degli attori, personalizzando tale liquidazione in ragione delle circostanze di fatto accertate.

Il ricorso incidentale proposto dalla s.r.l. C. e da G-C in proprio è in parte inammissibile ed in parte infondato.

Quanto al primo motivo del ricorso incidentale, riguardante la eccezione di tardività di carenza di legittimazione attiva degli attori e la valutazione della prova del vincolo parentale offerta dagli stessi, si richiama quanto esposto con riferimento ai primi due motivi del ricorso principale. Il secondo motivo del ricorso incidentale riguarda invece la violazione dell’art. 190 c.p.c., la decisione della Corte di appello – ad avviso delle ricorrenti incidentali – dovrebbe essere cassata in relazione agli articoli 113. 153 e 190 c.p.c. per avere affermato che i termini di cui all’art. 190 c.p.c. (definiti perentori dalla legge) lo sarebbero solo per le parti e non anche per il giudice che assegna i termini per il deposito della comparsa conclusionale.

Proprio la concessione di termini più lunghi di quelli indicati dalle norma, sostengono le ricorrenti principali, costituirebbe violazione del diritto di difesa degli originari convenuti in primo grado (in particolare, della C. s.r.l. e di C.).

Il motivo è infondato.

Si richiama sul punto la giurisprudenza di questa Corte, dalla quale il Collegio non ha alcun motivo di discostarsi, secondo la quale : “L’errore in merito al computo dei termini stabiliti dall’art. 190 cod. proc. civ. per il deposito della comparsa conclusionale non comporta la nullità della sentenza, non essendo tale sanzione comminata da alcuna disposizione di legge”. (Cass. 20 luglio 2001 n. 9926).

Per quanto riguarda il terzo, quarto, quinto, sesto e settimo ed ottavo motivo del ricorso incidentale, entrambi relativi alla violazione delle norme in materia antinfortunistica ed alla violazione degli articoli 2698, 2699, 2700 e 2730 cc. e degli articoli 115 e 116 c.p.c. (relativamente alla mancanza di prove della qualità di familiari degli attori originari ed alla certificazione prodotta in atti) si richiama quanto già osservato in ordine alle analoghe censure svolte dalla ricorrente principale nei motivi primo e secondo e sesto e settimo, anche per quanto riguarda la inammissibilità della censura riguardante la irregolarità della procura e la mancanza di ogni prova della qualità di genitori e fratelli degli attori e la tardività della eccezione in quanto sollevata oltre il termine di cui all’art. 183 sesto comma, c.p.c.

Inammissibile, infine, è il nono motivo del ricorso incidentale con il quale si deduce la erroneità della liquidazione del danno operata dalla Corte territoriale, senza adeguata motivazione in ordine alla intensità del vincolo familiare esistente.

I giudici di appello hanno motivato in ordine alla concreta determinazione del risarcimento a ciascuno degli attori, tenendo conto dell’età del giovane, del fatto che lo stesso si era allontanato dal proprio Paese nell’intento di aiutare economicamente i propri familiari ed ha concluso che la vita del nucleo familiare, sia nei rapporti tra i singoli membri tra di loro sia nelle relazioni con il tessuto sociale, non potrà più essere quella che era anteriormente alla morte del giovane.

Conclusivamente entrambi i ricorsi devono essere rigettati. Tenuto conto delle questioni dibattute, sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di questo giudizio tra tutte le parti costituite (nulla per le spese con riferimento alle parti intimate).


P.Q.M.

Riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa le spese tra tutte le parti costituite.

 

 

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Studio Legale Avvocato Francesco Noto – Cosenza

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