La necessità di non alterare la concorrenza del mercato impone un obbligo di differenziazione tra attività amministrativa e di impresa per le società promiscue

Al fine di  evitare che i vantaggi come pubblica amministrazione possano riverberarsi sul parallelo esercizio di impresa, l’Alto Consesso Amministrativo sancisce l’obbligo di differenziazione tra attività amministrativa e di impresa, non senza precisare che, l’art. 3, comma 27, Legge N° 244 del 2007 -recante il divieto per le P.A. di costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere direttamente od indirettamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società- persegue il precipuo scopo di garantire non tanto la tutela della libera  concorrenza tra imprese, quanto piuttosto di preservare  il principio di legalità e dunque  il corretto perseguimento dell’interesse pubblico. Consiglio di  Stato, Sez. VI, 20 marzo 2012, n. 1574 <!––>

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9993 del 2011, proposto da:
Cinexpo s.r.l., in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dagli avvocati Gabriele Pafundi, Luigi Cocchi, Gerolamo Taccogna, con domicilio eletto presso l’avvocato Gabriele Pafundi in Roma, viale Giulio Cesare, n. 14 – A4;

contro

Porto Antico di Genova s.p.a., in persona del legale rappresentate, rappresentata e difesa dagli avvocati Giuseppe Morbidelli, Gianpaolo Maraini, Andrea Mozzati, con domicilio eletto presso l’avvocato Giuseppe Morbidelli in Roma, via G. Carducci, n. 4;

nei confronti di

The Space Cinema 1 s.p.a., in personale del legale rappresentante, rappresentata e difesa dall’avvocato Francesco Sciaudone, con domicilio eletto presso quest’ultimo in Roma, via Pinciana, n. 25

per la riforma

della sentenza del 15 giugno 2011 n. 939 del Tribunale amministrativo regionale della Liguria.

 

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

visti gli atti di costituzione in giudizio di Porto Antico di Genova s.p.a. e di The Space Cinema 1 s.p.a.;

viste le memorie difensive;

visti tutti gli atti della causa;

relatore nella camera di consiglio del giorno 31 gennaio 2012 il Cons. Vincenzo Lopilato e uditi per le parti gli avvocati Cocchi, Taccogna, Bruni per delega dell’avvocato Morbidelli, Mozzati e Sciaudone.

 

 

FATTO

1.– La società per azioni Porto antico di Genova (di seguito: Porto Antico di Genova) ha indetto una procedura per la individuazione del conduttore di immobili, insistenti sul demanio marittimo dell’area portuale di Genova, da destinare a cinema multisala.

All’esito della procedura è stata individuata, quale contraente, la The Space Cinema 1 s.p.a.. La Cinexpo s.r.l. si è classificata seconda.

1.1.– Quest’ultima ha impugnato gli atti della procedura innanzi al Tribunale amministrativo regionale della Liguria deducendo una serie di illegittimità della procedura.

Il Tar adito, con sentenza del 15 giugno 2011 n. 939, ha dichiarato il difetto di giurisdizione ritenendo che il Porto Antico di Genova non possa considerarsi organismo di diritto pubblico. In particolare, si è osservato che esso «esercita attività imprenditoriale avente ad oggetto la valorizzazione di aree, edifici e strutture del porto antico di Genova». Inoltre, «non riceve provvidenze pubbliche; si autofinanzia; affronta e, conseguentemente, sopporta il rischio inerente alla gestione imprenditoriale delle aree demaniali: ossia esercita un’attività antitetica a quella demandata all’organismo pubblico tanto da tradursi in una vera e propria antinomia normativa rispetto alla formula, nella disciplina invocata, della società pubblica che persegue bisogni di interesse generale non aventi carattere industriale o commerciale». Sotto altro aspetto nella sentenza si afferma che gli stessi beni rientranti nell’area portuale hanno una destinazione commerciale e non sono «assorbiti nel regime pubblicistico strettamente demaniale».

2.– Con l’atto di appello, indicato in epigrafe, la sentenza sopra indicata è stata impugnata dalla Cinexpo s.r.l.. In particolare, si deduce la erroneità della sentenza in quanto il Porto Antico di Genova dovrebbe essere considerato organismo di diritto pubblico per le seguenti ragioni.

In primo luogo, perché la società ha personalità giuridica.

In secondo luogo, perché sarebbe sottoposta all’influenza pubblica in quanto i soci pubblici hanno la maggioranza assoluta e «riuniti in assemblea, nominano il consiglio di amministrazione, che dunque è espressione, nella maggioranza dei componenti, dei soci pubblici».

In terzo luogo, la sua attività non è imprenditoriale in quanto lo statuto prevede che «la società tenderà al raggiungimento dell’equilibrio finanziario (…) in modo da assicurare un volume di entrate possibilmente almeno pari all’entità delle spese». Sotto questo aspetto si aggiunge come la società non operi in regime di concorrenza, atteso che «gestisce una infrastruttura assolutamente unica, per soddisfare bisogni ed interessi della cittadinanza insuscettibili di trovare sfogo, in forme analoghe, in altri contesti urbani genovesi con essa fungibili sul piano funzionale». Si aggiunge che la società «non ha concorrenti e dunque non risente della corrispondente “pressione” a livello gestionale, essendo invece in condizione di orientare le proprie strategie alle esigenze di interesse pubblico di cui sono portatori i soci ed in particolare il Comune».

Infine, e soprattutto, la società deve costantemente perseguire l’interesse pubblico indicato dall’amministrazione locale. Lo statuto della società prevede, infatti, che l’attività societaria ha ad oggetto «la migliore gestione e quindi la valorizzazione delle aree, degli edifici e delle strutture, poste nel perimetro dell’esposizione internazionale specializzata “Colombo 1992”», nonché di altre aree collocate in altre zone nell’ambito del porto storico di Genova o in spazi ad esso limitrofi. Lo stesso statuto specifica, da un lato, che dette aree dovranno essere oggetto di «un utilizzo funzionale alle esigenze di recupero ambientale e di valorizzazione urbanistica delle zone circostanti», dall’altro, che le attività «dovranno essere coordinate e sviluppate in modo da assicurare e contribuire al rilancio della città di Genova». A tale proposito si richiama la delibera n. 116 del 2010 che ha affermato, ai fini di quanto previsto dall’art. 3, comma 27, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2008), che il Porto Antico di Genova svolge «attività strettamente necessarie al perseguimento delle finalità istituzionali dell’ente in base alle funzioni proprie del Comune».

In via subordinata, si deduce che, anche qualora si ritenesse che non sia possibile qualificare l’ente quale organismo di diritto pubblico, si dovrebbe riconoscere che si tratti di una società con capitale pubblico anche non maggioritario che, ai sensi dell’art. 32, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), ha ad oggetto la realizzazione di lavori o opere, ovvero la produzione di beni o servizi non destinati ad essere collocati sul mercato in regime di libera concorrenza.

Nel merito si assume la illegittima ammissione di The Space Cinema 1 s.p.a. alla gara per: a) «violazione del disciplinare di gara e dei principi generali in tema di evidenza pubblica che vietano offerte condizionate»; b) «eccesso di potere per travisamento dei fatti, difetto di istruttoria, illogicità, difetto di motivazione». In subordine, si assume la illegittimità della gara per: a) «violazione del principio di predeterminazione dettagliata dei criteri e sub criteri di valutazione delle offerte e difetto di motivazione»; «violazione dei generali principi in tema di composizione delle commissioni giudicatrici nell’evidenza pubblica», nonché «violazione dei principi di imparzialità e buon andamento». Infine, l’appellante ha chiesto la dichiarazione di inefficacia del contratto.

2.1.– Si è costituito in giudizio il Porto Antico di Genova rilevando, in via preliminare, che l’appello sarebbe tardivo in quanto proposto oltre il termine decadenziale di tre mesi dalla pubblicazione della sentenza previsto dagli artt. 87, comma 3, e 105, comma 2, cod. proc. amm. La tardività dell’appello sarebbe conseguenza anche, in ragione della natura dell’attività contestata, di quanto previsto dagli artt. 119, comma 2, e 120, comma 3, cod. proc. amm..

Per quanto attiene alla questione della giurisdizione, si contesta la ricostruzione operata nell’atto di appello, rilevandosi, in particolare, che la società resistente non può essere qualificata organismo di diritto pubblico in quanto svolgerebbe attività imprenditoriale. Nel merito si assume la legittimità dell’attività posta in essere dalla società stessa.

2.2.– Si è costituita in giudizio anche la società The Space Cinema 1 s.p.a. la quale ha chiesto il rigetto dell’appello e ha riproposto, con appello incidentale, i motivi prospettati in primo grado e non esaminati dal Tar con i quali ha impugnato gli atti della procedura che hanno ritenuto ammissibile l’offerta di Cinexpo s.r.l..

DIRITTO

1.– Con l’atto di appello, indicato in epigrafe, è stata impugnata la sentenza del Tribunale amministrativo regionale della Liguria 15 giugno 2011 n. 939, nella parte in cui ha ritenuto che la società per azioni «Porto Antico di Genova» (di seguito: Porto Antico di Genova) – che ha indetto una procedura volta ad individuare il conduttore di immobili, insistenti sul demanio marittimo dell’area portuale di Genova, da destinare a cinema multisala – deve essere qualificata come impresa pubblica, con la conseguente giurisdizione del giudice ordinario. Nella prospettiva dell’appellante, avendo la predetta società tutti i requisiti per essere considerata organismo di diritto pubblico, la giurisdizione spetterebbe, invece, al giudice amministrativo.

2.– In via preliminare, devono essere esaminate le eccezioni, sollevate dalla società resistente, di irricevibilità dell’atto di appello per tardività.

2.1.– Con la prima eccezione si assume che l’appello sarebbe stato notificato in data 1° dicembre 2011 e, pertanto, oltre il termine decadenziale di tre mesi dalla data di pubblicazione della sentenza avvenuta il 15 giugno 2011.

Al fine di stabilire se detta eccezione sia o meno fondata è necessario riportare la disciplina processuale rilevante dei termini di impugnazione.

L’art. 105, secondo comma, cod. proc. amm. prevede che «nei giudizi di appello contro i provvedimenti dei tribunali amministrativi regionali che hanno declinato la giurisdizione o la competenza si segue il procedimento in camera di consiglio, di cui all’articolo 87, comma 3» del medesimo codice.

Il richiamato art. 87, comma 3, nella versione originaria, stabiliva che nei giudizi in camera di consiglio «tutti i termini processuali sono dimezzati rispetto a quelli del processo ordinario, tranne quelli per la notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti».

L’ampia formulazione impiegata ha fatto sorgere dubbi in ordine alla assoggettabilità al dimezzamento anche dei termini previsti per la notificazione del ricorso di appello. La oggettività della incertezza interpretativa ha indotto il legislatore – in sede di adozione del decreto legislativo 15 novembre 2011, n. 195 (Disposizioni correttive ed integrative al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, recante codice del processo amministrativo a norma dell’articolo 44, comma 4, della legge 18 giugno 2009, n. 69) – a modificare la norma specificando che detto dimezzamento non opera esclusivamente per gli atti sopra indicati relativi però ai «giudizi di primo grado», in quanto solo in relazione ad essi si pone l’esigenza di assicurare un maggiore spazio temporale per garantire l’esercizio adeguato del diritto di difesa. Ne consegue che, allo stato, non sussistono più dubbi in ordine al fatto che l’appello avverso le sentenze che declinano la giurisdizione debba essere proposto nel termine breve di tre mesi e non di sei. Deve, però, ritenersi che prima dell’adozione di tale decreto legislativo si era in presenza di quelle «oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto» che integrano gli estremi dell’errore scusabile ai sensi dell’art. 37 cod. proc. amm.

In definitiva, a prescindere da quale fosse l’interpretazione preferibile prima della modifica legislativa, deve ritenersi che, vigente la versione originaria dell’art. 87, comma 3, cod. proc. amm., la notificazione dell’atto di appello oltre il termine di tre mesi dalla pubblicazione della sentenza che ha declinato la giurisdizione non può essere considerato, per le ragioni indicate, tardiva.

L’eccezione, pertanto, deve essere disattesa.

2.2.– Con una seconda eccezione si ritiene che l’appello sarebbe comunque tardivo in quanto il rispetto del termine di tre mesi per la notificazione del ricorso sarebbe imposto anche dagli artt. 119, comma 2, e 120, comma 3, cod. proc. amm.

Anche tale rilievo non è fondato.

Le norme processuali evocate, che introducono un sistema accelerato di definizione delle controversie, prevedono, con norma eccezionale insuscettibile di applicazione analogica, che il dimezzamento dei termini ordinari di impugnazione vale esclusivamente con riferimento a controversie aventi ad oggetto i contratti pubblici disciplinati dal d.lgs. n. 163 del 2006. Nel caso in esame la società appellata ha indetto, come già sottolineato, una procedura per la stipulazione di un contratto di locazione che esula dall’ambito applicativo del codice. Ne consegue che, in relazione alla tipologia di controversia all’esame di questo Collegio, non possono trovare applicazione i termini per l’appello previsti dalle evocate norme processuali.

3.– Nel merito la soluzione della presente controversia impone di individuare i caratteri identificativi della impresa pubblica, dell’organismo di diritto pubblico ovvero della società di cui all’art. 32 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE).

Più in particolare, venendo in rilievo una società per azioni pubblica, è necessario distinguere le società che svolgono attività di impresa da quelle che esercitano attività amministrativa. I profili di rilevanza afferenti al regime giuridico delle predette società su cui occorre soffermarsi sono: i) le modalità di costituzione; ii) la fase dell’organizzazione; iii) la natura dell’attività svolta; iv) il fine perseguito.

All’esito di questa analisi si dovrà valutare, avendo riguardo alle regole che concretamente governano l’attività del Porto Antico di Genova, se lo stesso possegga le caratteristiche delle società pubbliche che svolgono attività di impresa ovvero delle società pubbliche che, come gli organismi di diritto pubblico o le società di cui al citato art. 32, svolgono attività amministrativa.

4.– Le imprese pubbliche in forma societaria, in ragione della mancanza di una disciplina generale e per la presenza di diverse normative di settore, non sono riconducibili ad un modello unitario. Nondimeno, si possono indicare, muovendo dalla definizione che il codice civile fornisce di imprenditore e di società (in particolare artt. 2082 e 2247), alcuni aspetti unitari relativi ai profili di rilevanza sopra indicati anche allo scopo di mettere in rilievo le diversità esistenti rispetto alle società di diritto privato.

4.1.– Le società per azioni, ad eccezione delle società unipersonali, nascono normalmente in virtù di un contratto associativo con comunione di scopo ed hanno personalità giuridica. Le società con partecipazione pubblica possono essere costituite non solo mediante un atto di autonomia negoziale ma anche, come è avvenuto per i soggetti creati all’esito dei processi di privatizzazione degli enti pubblici economici, in virtù di una espressa previsione legislativa.

4.2.– L’organizzazione delle società per azioni si fonda su una struttura ben definita contemplata dal codice civile che assegna normalmente, nel sistema tradizionale, funzioni deliberative all’assemblea, gestionali agli amministratori e di controllo al collegio sindacale, con attribuzione alla prima del potere di nomina degli amministratori (art. 2380-bis e ss.). In presenza di una società pubblica l’art. 2449 cod. civ. prevedeva, nella versione originaria, che lo statuto potesse conferire allo Stato o agli enti pubblici «la facoltà di nominare uno o più amministratori e sindaci, ovvero componenti del consiglio di sorveglianza». Il testo vigente – risultante dalle modifiche recate dalla legge 25 febbraio 2008, n. 34 e finalizzate a tenere conto dell’orientamento espresso dalla Corte di giustizia, sentenza 6 dicembre 2007, in cause riunite C-463/04 e C-464/04 – ha aggiunto che detta facoltà di nomina deve essere «proporzionale alla partecipazione al capitale sociale». Ne consegue che soltanto se la partecipazione pubblica è maggioritaria è possibile esercitare una influenza dominante nella gestione societaria attraverso l’esercizio del potere di nominare, tra l’altro, la maggioranza degli amministratori. Per le società pubbliche costituite con le leggi di privatizzazione sono previsti poteri speciali ancora più accentuati in capo al socio pubblico (v., in particolare, art. 2 del decreto-legge 31 maggio 1994, n. 332, recante «Norme per l’accelerazione delle procedure di dismissione di partecipazioni dello Stato e degli enti pubblici in società per azioni»). La giurisprudenza comunitaria è intervenuta anche in questo ambito chiarendo che le esigenze di garantire i principi di libertà di stabilimento e di libera circolazione dei capitali impongono di non introdurre deroghe alle modalità ordinarie di funzionamento dell’ente societario che non siano proporzionali agli obiettivi perseguiti (Corte di giustizia, sentenza 26 marzo 2009, causa C-326/07). In definitiva, la linea di tendenza del diritto europeo, con riguardo alle regole di funzionamento dell’ente, è nel senso di assicurare una tendenziale equiparazione al modello delle società private allo scopo di evitare che, attraverso il riconoscimento di poteri speciali al socio pubblico, si possano disincentivare gli investimenti da parte di altri operatori economici con pregiudizio alle richiamate libertà comunitarie.

4.3.– Le società per azioni svolgono una attività che – secondo la definizione generale posta dal riportato art. 2082 c.c., valida anche in presenza di una partecipazione pubblica al capitale sociale – ha necessariamente natura economica. L’esercizio di una attività con metodo economico implica che la stessa debba almeno garantire la copertura dei costi con i ricavi e che l’imprenditore assuma il rischio conseguente all’iniziativa intrapresa.

4.4.– Lo scopo delle società per azioni, cui l’attività deve essere indirizzata, è rappresentato, alla luce di quanto previsto dall’art. 2247 cod. civ., dalla divisione degli utili: si tratta di quello che viene definito lucro soggettivo.

In presenza di una società pubblica il principio di legalità impone – come del resto in tutti i casi in cui l’amministrazione utilizza strumenti privatistici – che la stessa persegua anche l’interesse pubblico che è quello poi che giustifica la decisione di partecipare o costituire una società.

In questa sede rileva stabilire se questo vincolo di scopo sia compatibile con il modello societario e, in particolare, con il fine di lucro e quali siano le modalità attraverso cui tale interesse viene perseguito.

In relazione al primo aspetto, deve ritenersi che la presenza del vincolo di scopo che connota le società pubbliche non incide sull’inquadramento dell’ente in esame nell’ambito del tipo societario. Lo strumento delle società è, infatti, utilizzato anche nel settore del diritto civile per il conseguimento di scopi non lucrativi: basti pensare, non solo alla disciplina dell’impresa mutualistica (art. 2511 e ss.), ma anche e soprattutto alla disciplina dell’impresa sociale (decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 155, il cui articolo 1 prevede che possono acquisire detta qualifica tutte le organizzazioni private, ivi compresi gli enti societari, «che esercitano in via stabile e principale un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale»). Ma anche a prescindere da questo profilo, questa Sezione ritiene che l’interesse pubblico sia compatibile con lo scopo lucrativo che caratterizza, a livello tipologico, le società per azioni. Deve, infatti, ritenersi che, soprattutto dopo la riforma del diritto societario del 2003, l’interesse sociale non ha una connotazione omogenea ed unitaria, in quanto confluiscono nell’assetto societario non solo interessi eterogenei che fanno capo agli stessi soci (si pensi al socio investitore e a quello imprenditore) ma anche interessi diversi riferibili a soggetti terzi. In questa prospettiva, non può ritenersi che il rispetto dell’interesse pubblico sia idoneo ad alterare il tipo societario conducendo alla configurazione di una società diversa da quella contemplata dal codice civile.

In relazione al secondo e connesso aspetto, è noto che, se si ha riguardo al contratto sociale (che è quello che rileva in questa sede), l’orientamento tradizionale ritiene che l’interesse pubblico sia un motivo proprio soltanto di alcuni dei soci e in quanto tale giuridicamente irrilevante. Se, però, si assegna alla causa, in linea con le più recenti ricostruzioni, natura concreta può ritenersi che tale interesse concorre a definire la funzione economico – individuale del contratto societario, non sussistendo, per i motivi indicati, incompatibilità tra interesse pubblico, scopo di lucro e interesse sociale. La questione oggi è però risolta, a livello più generale – come rilevato dal Consiglio di Stato, Adunanza plenaria 3 giugno 2011, n. 10 – dall’ art. 3, comma 27, della legge 24 dicembre 2007 n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2008). Tale norma ha stabilito che «al fine di tutelare la concorrenza e il mercato», le pubbliche amministrazioni «non possono costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere direttamente o indirettamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società». La disposizione riportata ha posto un limite all’impiego dello strumento societario non tanto per assicurare, come, invero, dichiarato nella parte iniziale della disposizione stessa, la tutela della concorrenza – che di per sé lo strumento dell’impresa pubblica non potrebbe pregiudicare – quanto per garantire, in coerenza con l’esigenza di rispettare il principio di legalità, il perseguimento dell’interesse pubblico. Può, pertanto, ritenersi che, allo stato, esiste una norma imperativa che – esprimendo «un principio già in precedenza immanente nel sistema» (Cons. Stato, Ad. plen. n. 10 del 2011, cit.) – pone un chiaro limite all’esercizio dell’attività di impresa pubblica rappresentato dalla funzionalizzazione al perseguimento anche dell’interesse pubblico.

In definitiva, gli strumenti della causa ovvero, allo stato della legislazione, della norma imperativa permettono di attribuire rilevanza agli interessi pubblici nell’ambito delle società pubbliche contribuendo, senza alterazione del tipo, a conferire specialità al modello codicistico delle società per azioni.

4.5.– In presenza dei caratteri sin qui indicati la società pubblica deve, pertanto, essere assoggettata, sul piano sostanziale, allo statuto privatistico dell’imprenditore, con applicazione soltanto di alcune regole pubbliche quali, ad esempio, quelle che configurano la responsabilità amministrativa per danno erariale subito dai soggetti pubblici partecipanti (Cass., sez. un., 19 dicembre 2009, n. 26806). L’applicazione di questo statuto implica, altresì, che, in ossequio alle prescrizioni imposte dal diritto europeo per tutelare la concorrenza (in particolare artt. 106 e 345 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), deve essere assicurato il principio di pari trattamento tra impresa pubblica e privata: è, pertanto, vietata l’attribuzione – al di fuori dei casi in cui si debba garantire la «missione pubblica» (art. 106, secondo comma) nel settore dei servizi pubblici – di qualunque diritto speciale o esclusivo in grado di incidere negativamente sulle regole concorrenziali.

Sul piano processuale, la giurisdizione spetta al giudice ordinario.

Soltanto nei settori speciali l’impresa pubblica, per espressa volontà del legislatore, è configurabile quale amministrazione aggiudicatrice (art. 207 del d.lgs. n. 163 del 2006), con la conseguente applicazione delle regole sul procedimento di evidenza pubblica e attribuzione della giurisdizione al giudice amministrativo.

5.– Le società pubbliche che svolgono attività amministrativa sono anch’esse caratterizzate dalla presenza di una molteplicità di figure soggettive che impedisce la configurazione di un modello unitario: si pensi alle società in house o alle società costituite o partecipate «per la produzione di beni e servizi strumentali» all’attività delle amministrazioni pubbliche regionali e locali di cui all’art. 13 del decreto – legge 4 luglio 2006, n. 223.

In questa sede l’analisi deve essere limitata all’istituto dell’organismo di diritto pubblico – di cui verranno esaminati i profili di rilevanza secondo l’ordine espositivo già tracciato (costituzione – organizzazione – attività – fine) avendo presente la definizione contenuta nell’art. 3, comma 26, del d.lgs. n. 163 del 2006 – nonché alle società pubbliche affidatarie, tra l’altro, di lavori pubblici di cui all’art. 32, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 163 del 2006.

5.1.– L’organismo di diritto pubblico, come previsto dal citato art. 3, può assumere la veste giuridica della società per azioni, avere personalità giuridica e costituirsi, conseguentemente, secondo le modalità ordinarie già illustrate.

5.2.– L’organizzazione dell’ente deve necessariamente essere caratterizzata da quella che viene normalmente definita influenza pubblica che, stando sempre a quanto previsto dall’art. 3, si può avere quando ricorrono le seguenti alternative condizioni: i) l’attività è finanziata in modo maggioritario da parte dello Stato, degli enti pubblici territoriali o di altri organismi di diritto pubblico; ii) la gestione è soggetta al controllo di questi ultimi; iii) l’organo di amministrazione, di direzione o di vigilanza è costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico.

5.3.– L’attività dell’organismo di diritto pubblico deve avere «carattere non industriale o commerciale». I compiti dell’ente vengono, pertanto, svolti non con metodo economico ma mediante l’esercizio di una attività che non implica assunzione del rischio di impresa (cfr., da ultimo, Cass., sez. un., 9 maggio 2011, n. 10068).

La presenza di tale carattere è desunta, in primo luogo, dalla peculiare connotazione “interna” dell’assetto societario e, in particolare, dalla esistenza di relazioni finanziarie con l’ente pubblico che assicurano, secondo diverse modalità, la dazione di risorse in grado di consentire la permanenza sul mercato dell’organismo.

In secondo luogo, elemento “esterno”, di valenza indiziaria, dell’assenza del metodo economico può essere costituito dal contesto in cui l’attività viene esercitata e cioè dall’esistenza o meno di un mercato di beni o servizi oggetto delle prestazioni erogate. La mancanza di un mercato non può ovviamente derivare dal fatto che in esso operi la sola società pubblica ma occorre stabilire se un mercato abbia la possibilità di esistere valutando le caratteristiche dei beni e servizi offerti, i loro prezzi, nonché la presenza anche solo potenziale di più fornitori. Quando si accerta che manchi effettivamente un mercato concorrenziale idoneo, per le sue oggettive condizioni, ad indurre gli operatori economici a svolgere in quel settore la propria attività ciò rappresenta certamente un rilevante elemento probatorio circa l’assenza del metodo economico e dunque dell’attività di impresa (cfr., tra le tante, Corte di giustizia CE, 10 maggio 2001, in cause riunite C-223/99 e C-260/99).

5.4.– Lo scopo dell’ente è costituito, sempre avendo riguardo a quanto previsto dall’art. 3, dall’esigenza di «soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale». Si tratta di una nozione di matrice comunitaria che, trasposta sul piano interno, significa che l’organismo deve sostanzialmente perseguire esclusivamente gli interessi pubblici previsti dalle normative di settore.

5.5.– In presenza dei caratteri sin qui indicati, che postulano sempre una attenta indagine casistica, la società pubblica riveste la natura di organismo di diritto pubblico con la conseguenza che l’attività che pone in essere è un’attività amministrativa soggetta in quanto tale allo statuto della pubblica amministrazione. La società, pertanto, deve essere qualificata quale «amministrazione aggiudicatrice» e deve, in particolare, rispettare, da un lato, le regole procedimentali contenute nel codice dei contratti pubblici ovvero, in presenza di un contratto diverso da quelli previsti dal codice, i principi generali a tutela della concorrenza per il mercato nella scelta del contraente, dall’altro le regole processuali contenute nel codice del processo amministrativo e dunque anche di quelle che attribuiscono la giurisdizione al giudice amministrativo (artt. 7 e 133, comma 1, lettera e).

Qualora la società svolga attività promiscua – amministrativa e di impresa – è necessario assicurare il rispetto del principio di distinzione tra le due attività al fine di evitare che i vantaggi derivanti dall’operare come pubblica amministrazione possano essere trasposti nel settore in cui lo stesso soggetto svolge attività di impresa alterando così il principio di equiordinazione tra imprese pubbliche e private posto a presidio del rispetto delle regole della concorrenza (cfr., sia pure con riguardo a fattispecie diverse da quella in esame, Corte cost. n. 326 del 2008; Cons. Stato, Ad. plen., 4 agosto 2011, n. 17).

6.– In sintesi, alla luce di quanto sin qui esposto, risulta che elementi comuni tra impresa pubblica e organismo di diritto pubblico attengono all’impiego dello strumento societario e dunque alla fase di costituzione nonché all’esigenza di perseguire l’interesse pubblico. Le differenze tipologiche riguardano, invece, le modalità di svolgimento dell’attività – economica e non economica – e la conseguente possibile compatibilità, esistente soltanto per le imprese pubbliche, tra scopo di interesse pubblico e scopo di lucro. Esiste poi un elemento costituito dall’influenza dominante che si atteggia diversamente a seconda della specificità della fattispecie: mentre per l’organismo di diritto pubblico si tratta di un elemento indefettibile di identificazione dell’ente, per l’impresa pubblica la sua presenza dipende, alla luce di quanto previsto dall’art. 2449 cod. civ., dalla composizione, maggioritaria o minoritaria, della compagine societaria.

7.– L’art. 32 del d.lgs. n. 163 del 2006 contempla un altro modello di società pubblica, anche non maggioritaria, diverso dall’organismo di diritto pubblico, che si caratterizza per il fatto che oggetto dell’attività è «la realizzazione di lavori o opere, ovvero la produzione di beni o servizi, non destinati ad essere collocati sul mercato in regime di libera concorrenza». L’elemento qualificante per ritenere che la società agisca nell’esercizio di poteri pubblici è in questo caso rappresentato dal fatto che, come risulta chiaramente dalla riportata definizione codicistica, la relativa attività non si inserisce in un mercato concorrenziale (si vedano le considerazioni svolte al precedente punto 5.3.). Si applica, pertanto, anche in questo caso il regime giuridico sopra riportato (punto 5.5.).

8.– Si può adesso valutare in concreto, avendo presente quanto sin qui affermato, quali siano le caratteristiche che presenta la società Porto Antico di Genova al fine di stabilire se la stessa debba essere qualificata quale impresa pubblica, con giurisdizione del giudice ordinario, ovvero organismo di diritto pubblico o società ex art. 32 del d.lgs. n. 163 del 2006, con giurisdizione del giudice amministrativo.

In particolare, nell’atto di appello si assume che la società in esame, contrariamente a quanto affermato dal giudice di primo grado, sarebbe un organismo di diritto pubblico per le seguenti ragioni: i) ha personalità giuridica; ii) è sottoposta all’influenza pubblica, in quanto la maggioranza assoluta dei soci consentirebbe, alla luce di quanto previsto dallo statuto, che più della metà dell’organo di amministrazione venga designata dalla pubblica amministrazione; iii) l’attività non è imprenditoriale come dimostrerebbe il fatto che lo statuto prevede che «la società tenderà al raggiungimento dell’equilibrio finanziario (…) in modo da assicurare un volume di entrate possibilmente almeno pari all’entità delle spese» e non opererebbe in regime di concorrenza, atteso che «gestisce una infrastruttura assolutamente unica, per soddisfare bisogni ed interessi della cittadinanza insuscettibili di trovare sfogo, in forme analoghe, in altri contesti urbani genovesi con essa fungibili sul piano funzionale»; iv) la società deve costantemente perseguire l’interesse pubblico indicato dall’amministrazione locale, come riconosciuto espressamente dalla delibera comunale n. 116 del 2010. In via subordinata, si assume che, anche qualora si volesse ritenere che la società in esame non sia un organismo di diritto pubblico sarebbe comunque una società rispondente alle caratteristiche previste dal citato art. 32, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 163 del 2006.

Gli esposti motivi, posti a base dell’appello, sono destituiti di fondamento per le ragioni di seguito indicate.

8.1.– La costituzione della società in esame è avvenuta, come risulta dagli atti del processo, con un contratto associativo con comunione di scopo e con conseguente attribuzione della personalità giuridica. Ma questo rappresenta, come già sottolineato, un elemento proprio sia dell’impresa pubblica sia dell’organismo di diritto pubblico in forma societaria.

8.2.– L’organizzazione dell’ente è effettivamente, come affermato nell’atto di appello, soggetta all’influenza dominante dei soci pubblici che nominano la maggioranza degli amministratori. Ma non si tratta di un elemento di sola identificazione dell’organismo di diritto pubblico in quanto anche per le imprese pubbliche il meccanismo prefigurato dall’art. 2449 cod. civ. consente, per le ragioni indicate, che il socio pubblico maggioritario nomini un numero di amministratori proporzionali alla partecipazione al capitale sociale con conseguente possibilità di esercitare, in concreto, un’influenza dominante nella fase gestoria.

8.3.– Per quanto attiene all’attività della società, l’appellante non ha dimostrato che la stessa venga svolta con metodo non economico senza assunzione del rischio di impresa.

Lo statuto prevede espressamente che il volume delle entrate debba essere «almeno pari all’entità delle spese» (art. 3.1.). L’espressione «possibilmente» che precede la suddetta frase non può essere intesa come riconoscimento della «licenza di perdere». Se questa fosse stata l’intenzione delle parti, al momento della costituzione della società, le stesse avrebbero dovuto stabilirlo in maniera chiara ed inequivoca. Nel caso di specie, al contrario, lo statuto contiene indici interpretativi che contraddicono tale assunto nella parte in cui prevede, oltre quanto riportato al successivo punto, che «la società tenderà al raggiungimento dell’equilibrio finanziario» (art. 3.1, cit., parte prima). La conferma di quanto affermato risulta, altresì, dalla mancanza di meccanismi relazionali di tipo finanziario tra società ed amministrazione pubblica idonei a consentire un ripianamento delle perdite in grado di permettere la stessa sopravvivenza della società. Non è stato, dunque, dimostrato che la società agisca, anche solo in relazione ad una “parte” della propria attività, senza assunzione del rischio di impresa.

Inoltre, non è stato neanche provato che l’ente opera in un mercato non concorrenziale. L’appellante si limita ad una generica asserzione circa la mancanza di concorrenzialità che in quanto tale è inidonea a fornire un elemento indiziario della assenza del metodo economico. Al contrario, lo statuto prevede che la società ha il compito di gestire un ampio compendio immobiliare nei settori più vari: dalle attività promozionali, turistiche, del tempo libero e terziarie a quelle della comunicazione, dei congressi, dell’editoria e della stampa. La vastità degli ambiti di intervento costituisce, al contrario, un indizio della astratta esistenza di diversi mercati nell’ambito dei quali potrebbero certamente avere interesse ad intervenire più operatori.

8.4.– Per quanto attiene al fatto che la società deve agire per il perseguimento delle finalità istituzionali dell’ente pubblico sono state già indicate le ragioni per le quali detto elemento non sia caratterizzante del solo organismo di diritto pubblico bensì dell’attività di tutte le società che svolgono attività di impresa. Ne consegue che la circostanza, richiamata nell’atto d’appello, secondo cui la delibera comunale n. 116 del 2010 ha imposto al Porto antico di Genova di svolgere «attività strettamente necessarie al perseguimento delle finalità istituzionali dell’ente in base alle funzioni proprie del Comune», non costituisce un elemento che può condurre a ritenere che la società svolga attività amministrativa.

A ciò si aggiunga che lo statuto esplicitamente stabilisce che la società possa produrre utili e che gli stessi «saranno a disposizione per l’eventuale assegnazione di un dividendo ai soci in proporzione alle quote di partecipazione, salvo che l’assemblea disponga di rimandare ai successivi esercizi o di destinarli a speciali riserve» (art. 38). La presenza di uno scopo di lucro rappresenta, ancora una volta, un elemento riconducibile esclusivamente al modello delle società pubbliche che svolgono attività di impresa.

8.5.– In definitiva, l’indagine svolta, modulata sulla specifica attività posta in essere dal Porto Antico di Genova, ha dimostrato che la stessa è svolta con metodo economico ed è finalizzata al perseguimento di uno scopo di lucro, compatibile con l’interesse pubblico, con la conseguenza che sono presenti i connotati tipici ed esclusivi dell’attività di impresa e non dell’attività amministrativa.

8.6.– Con riferimento, infine, alla censura prospettata in via subordinata basta sottolineare, per dimostrarne la infondatezza, che la impossibilità di applicare l’evocato art. 32, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 163 del 2006 deriva dal fatto che detta disposizione presuppone, ai fini della qualificazione della società pubblica quale amministrazione aggiudicatrice, che l’attività posta in essere sia resa in un mercato non concorrenziale. Ma nel caso di specie si è già detto che la società Porto Antico di Genova non risulta che operi in un tale contesto.

9.– Per le ragioni sin qui esposte, l’appello deve essere rigettato e, per l’effetto, confermata la sentenza impugnata, che ha ritenuto correttamente sussistente la giurisdizione del giudice ordinario. Il rigetto dell’appello principale priva l’appellato di interesse alla trattazione dell’appello incidentale.

10.– In applicazione del principio della soccombenza va condannata la società appellante al pagamento delle spese processuali, liquidate in complessivi euro 5000,00 (cinquemila), di cui 2.500,00 (duemila e cinquecento) in favore di Porto Antico di Genova s.p.a. e 2.500,00 (duemila e cinquecento) in favore di The Space Cinema 1 s.p.a..

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello principale, come in epigrafe proposto, lo rigetta. e dichiara improcedibile l’appello incidentale.

Condanna la società appellante al pagamento delle spese processuali, liquidate in complessivi euro 5000,00 (cinquemila), di cui 2.500,00 (duemila e cinquecento) in favore di Porto Antico di Genova s.p.a. e 2.500,00 (duemila e cinquecento) in favore di The Space Cinema 1 s.p.a..

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 31 gennaio 2012 con l’intervento dei magistrati:

 

 

Carmine Volpe, Presidente

Rosanna De Nictolis, Consigliere

Gabriella De Michele, Consigliere

Roberta Vigotti, Consigliere

Vincenzo Lopilato, Consigliere, Estensore

 

 

 

 

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 20/03/2012

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 

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Studio Legale Avvocato Francesco Noto – Cosenza

 

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