L’università privata soggiace alle regole del codice del consumo, ed alle relative misure sanzionatorie in ipotesi di pratiche commerciali scorrette

Il Consiglio di Stato conferma la decisione del Tribunale Amministrativo di Roma, e conferma le sanzioni irrogate ad una università privata da AGCM -Autorita’ Garante della Concorrenza e del Mercato- per pratiche commerciali ritenute scorrette. La vicenda prende piede dalle doglianze di taluni iscritti, poi appurate durante la fase istruttoria dall’amministrazione indipendente, tese a lamentare gli ostacoli giuridici frapposti dall’Ateneo in ipotesi di esercizio del diritto di recesso, ed altresì il diverso radicamento della competenza territoriale. In sostanza, lo studente che intendeva recedere anzitempo dalla prestazione didattica convenuta, si vedeva subordinare gli effetti della interruzione del vincolo non solo al pagamento delle somme dovute per prestazioni pregresse e fruite, ma altresì alla tacitazione di importi maturati in un momento successivo. Tale metodica trovava il proprio acme nelle ipotesi di rinnovo tacito, che avviluppava lo studente in una spirale debitoria, destinata ad infirmare la concreta possibilità di sciogliere il vincolo negoziale. Effetti di cui il candidato si avvedeva solo nella fase di esercizio del diritto, a fronte di un Regolamento di ateneo del tutto laconico sul punto. La sanzione irrogata da AGCOM (ben 250.000,00 Euro) veniva impugnata dinanzi al TAR Lazio, ed entrambi gli organi di giustizia aditi nei due gradi di lite hanno così reietto le difese dell’Ateneo. Per il Consiglio di Stato non ha alcun rilievo ai fini del contendere la autonomia costituzionale delle università sancita dall’art. 6, comma II°, L. N° 168/1989, e l’asserito ed esclusivo controllo ministeriale, in combinato disposto con l’art. 101 D. L.vo N° 206/2005, teso ad espungere dalla disciplina del codice del consumo i servizi pubblici. Premessa deputata così ad escludere dal novero soggettivo del codice del consumo le università (art. 18). Di tutt’altra opinione il Supremo Consesso. La stipula di un c.d. “contratto con lo studente”, il completamento del ciclo formativo (art. 4, comma 1, lett. d-e, del D.M. 17 aprile 2003), l’apposita carta di servizi (volta a garantire i diritti degli studenti quali fruitori di un servizio pubblico), non esclude doversi accostare l’università privata al professionista, tale essendo, ex art. 18, lett. b), d.lgs. n. 206/2005, l’attività di impresa finalizzata alla promozione e/o alla commercializzazione di un prodotto o servizio. In detti termini, per professionista autore della pratica commerciale deve intendersi “chiunque abbia un’oggettiva cointeressenza diretta ed immediata alla realizzazione della pratica commerciale medesima”. Lettura così in linea con la superiore esegesi sovranazionale (Corte di Giustizia dell’unione Europea, sentenza 59/2013), secondo cui assume la veste di professionista qualsiasi persona fisica o giuridica che eserciti un’attività remunerata, anche se portatore di un interesse generale o del tutto con veste di diritto pubblico. La preminente esigenza di tutela del consumatore impone per l’effetto adottare una nozione elastica di professionista, ed anche gli studenti debbono intendersi quali consumatori ai sensi della direttiva sulle pratiche commerciali sleali, se indotti in errore dalle informazioni ingannevoli diffuse dall’organismo, che preclude determinarsi in modo consapevole. Operata siffatta premessa di lettura, le pratiche tese ad ostacolare la spendita del diritto di recesso, ed il diverso radicamento della competenza territoriale, da parte di un ateneo privato, sono da intendersi pratica commerciale scorretta ex art. 21 D. L.vo N° 206/2005 (Consiglio di Stato, sentenza 3 Maggio 2023, N° 4498).

Studio Legale Avvocato Francesco Noto Cosenza Napoli

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